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RECENSIONE DEL CRITICO FABIO BIANCHI

La torinese Rege Cambrin vira verso l'Iperrealismo. Cosa può dirci oggi questa tendenza? Che la grande pittura, per reggere il confronto con la grande storia dell'arte, deve continuare certe illustri tradizioni. L'Iperrealismo americano degli anni '60 non è passato invano, non è stato un incidente di percorso. Ha soltanto ribadito - rilanciato cioè in altro contesto - il valore tecnico e stilistico di certa sublime pittura, italiana ma anche europea. Rege Cambrin prosegue quel percorso, ci ricorda che figurazione e oggettività hanno ancora un senso nella "società liquida" del XX e XXI secolo. I suoi soggetti hanno medesima intensità, registro espressivo simile, sfumature e sensibilità coloristiche uguali a composizioni di secoli passati.
 
I suoi fiori evocano non solo l'effigie ma anche lo spirito degli "still life", lo sfondo nero accentua poi teatralità e artificiosità dell'impianto. La sua pittura floreale - anche la percezione che ne abbiamo noi - è allora un potente catalizzatore culturale, uno strumento magnifico per far rivivere un universo espressivo potente.
Lo stesso accade con i dipinti ritraenti oggetti, più vicini alla caratterizzazione fattuale e simbolica, dove tutto diventa sublimazione della realtà. Per certi aspetti diventa uno psicologismo sottile e straordinariamente efficace per le valenze non solo pittoriche.
Ma è con e nelle figure che Rege Cambrin ottiene gli effetti maggiori, che la sua arte viene consacrata e - fra le righe - ci dice che la pittura è un sogno da coltivare, obbligatoriamente. Le sue fanciulle rivitalizzano i fasti barocchi, ma anche lo spirito irriverente e beffardo di certo Impressionismo. Soprattutto riprendono l'allegro e sulfureo fascino delle Belle Epoque quando colore e forma erano la voluttuosa trascrizione di ideali e idoli di una società ormai lanciata verso un avveniristico progresso.
Fabio Bianchi